Amanita falloide: il fungo più pericoloso!

L’amanita falloide è un fungo subdolo, anche dosi minime del suo veleno provocano la morte. Si muore per averne mangiato anche solo metà del suo cappello: in questo caso la massima attribuita a Paracelso (“è la dose che fa il veleno”) non trova riscontro alcuno.

La pericolosità dell’amanita falloide non è insita solo nel suo veleno, ma anche in una sua particolare caratteristica: si mimetizza e riesce ad assumere molteplici sembianze. Grazie a questa sua caratteristica spiccatamente polimorfica l’amanita falloide sembra molto somigliante ad altre specie di funghi, simile perfino a funghi che appartengono a diversi generi. A causa di ciò l’amanita falloide viene spesso confusa con funghi, invece, del tutto innocui, e questo aumenta la sua pericolosità.

Nel gergo degli esperti di funghi, l’amanita falloide è chiamata anche con altri nomi, del tutto diversi tra loro: “ovolo bastardo”, “angelo della morte”, tignosa verdognola”, “agarico falloide” e “tignosa morteada”.

Il nome della famiglia (falloide), invece le deriva dalla parole greche “phallos” (pene) ed “eidos” (forma), nome assolutamente calzante per questa famiglia di funghi, il cui gambo ha la morfologia caratteristica assomigliante all’organo di riproduzione maschile.

Descrizione botanica

Questo pericolosissimo fungo, l’amanita falloide, è un fungo che può assumere infinite forme, ma, in ogni caso, presenta delle caratteristiche ben definite, che specifichiamo qui sotto:

  1. Il cappello ha una forma di campanula o di cono, qualche volta di un emisfero, il suo colore può variare dal grigio al giallastro o dal bruno al molto chiaro, quasi bianco. Per lo più la colorazione del fungo passa gradatamente dallo scuro del centro alle tonalità più schiarite dei margini. Il cappello ha un diametro che varia dai quattro ai quindici centimetri e può apparire di natura viscosa o brillante a seconda del grado di umidità;
  2. Il gambo dell’amanita falloide ha la caratteristica conformazione del fallo e tende ad espandersi di lato sempre di più via via che si scende, possiede delle tipiche striature di colorito verdognolo o biancastro, molto simili a quelle di alcuni serpenti. Quando l’amanita falloide è giovane il gambo è pieno, quando il fungo invecchia, il gambo si fa cavo, anche se mantiene una consistenza bulbosa alla base;
  3. Le lamelle dell’amanita falloide sono disuguali e disposte fittamente, libere in corrispondenza del gambo;
  4. L’anello, che si trova nella regione pre – apicale, è di colorito biancastro, ed è avvolgente nei confronti del gambo come fosse un fazzoletto. Quando l’amanita falloide matura, l’anello, per lo più cade;
  5. La carne dell’amanita falloide si rivela per lo più di consistenza fibrosa, è molto soda e di colore bianco. Quando il fungo è crudo non ha praticamente odore, solo a volte può profumare di rose appassite o male odorare d’urina; quando, invece, è fradicio, può emanare un odore come quello della ammoniaca, fetido e sgradevole.
  6. L’amanita falloide cresce con facilità nei boschi pieni di fronde, in genere molto da presso le conifere e/o le querce, prediligendo il periodo estivo e quello autunnale.

Componenti chimici tossici

La tossicità dell’angelo della morte la si deve soprattutto a due composti chimici: le falloidine e le amantine. Le seconde, e amantine, che esistono nelle forme alfa e beta, sono dei peptidi di natura ciclica e bloccano in modo selettivo l’enzima RNA – Polimerasi. Una dose letale di questo veleno è anche di soli 0,1 milligrammo per ogni chilo di peso della vittima. Invece le falloidine sono delle tossine da fungo con strutture ciclo peptidiche e provocano dei danni a livello sia gastrointestinale che epatico: inibiscono i processi trascrittivi del DNA nelle cellule epatiche.

Tra l’altro, trattare termicamente le tossine non le inibisce, sono delle sostanze con la caratteristica della termostabilità e resistono, pertanto, anche alla cottura.

Sindrome da avvelenamento

Nel settanta / ottanta percento dei casi di avvelenamento da amanita falloide il destino della vittima è segnato. Già solo un mg. per ogni chilo di peso della vittima pare sia sufficiente per creare degli irreparabili danni al fegato. La comparsa dei primi sintomi avviene anche dopo sole sei – dodici ore dall’assunzione del veleno. A volte, invece, possono passare anche quaranta ore prima di avvertire i primi sintomi.

Una intossicazione da veleno di amanita falloide consta di 4 distinte fasi: il primo periodo, quello in cui avviene l’incubazione delle tossine si chiama “fase di latenza”, e corrisponde al tempo in cui le molecole del veleno restano latenti nell’organismo. Ed è proprio questo lungo lasso di tempo in cui si “attendono” i primi sintomi che complica il quadro clinico, in quanto sarebbe stato importantissimo intervenire tempestivamente.

Passate dalle dodici alle quaranta ore si iniziano ad avvertire i primi sintomi a livello gastrointestinale, che consistono per lo più in forti dolori a livello dell’addome, diarrea, eccessiva sudorazione e vomito che non si riesce a controllare. In questa fase è possibile, anzi, probabile, che si manifestino gravi complicazioni, ipovolemia e disidratazione, acuta insufficienza renale e, qualche volta, la morte.

Se ci si arriva, la terza fase (denominata “epatica” perché coinvolge il fegato) determina aumenti esagerati dei livelli di bilirubina e transaminasi, provocando a volte emorragie interne.

La fase che viene subito prima del decesso (grave insufficienza epatica), interviene, invece, a distanza di quattro, massimo cinque giorni dall’ingestione dell’amanita falloide, e si caratterizza per dei valori infinitesimali dell’attività protrombinica e per la necrosi a carico del fegato, quindi si va incontro ad un coma epatico che, per lo più, si associa ad una insufficienza respiratoria grave, ad una forma coagulopatica, alle convulsioni ed alla già precedentemente ricordata insufficienza respiratoria.

Avvelenamento da amanita falloide: i rimedi

Se si riuscisse a diagnosticare precocemente (evento molto raro in quanto la prima sintomatologia appare dopo parecchie ore), l’avvelenamento da amanita falloide potrebbe essere combattuto e si potrebbe scongiurare l’exitus del paziente. In ogni caso se il soggetto intossicato dovesse autonomamente sopravvivere all’intossicazione, dovrebbe molto probabilmente sottoporsi ad un intervento chirurgico di trapianto del fegato e, con ogni probabilità, anche alla dialisi.

Un intervento tempestivo dovrebbe comprendere di certo una lavanda gastrica per poter operare la rimozione completa di tutte le tracce delle tossine sia dall’intestino che dallo stomaco, e poi anche la somministrazione del carbone attivo, capace dell’assorbimento delle molecole delle tossine, poi ancora la plasmaferesi, l’emodialisi ed una diuresi forzata.

Antidoti che potrebbero avere efficacia (se somministrati immediatamente) potrebbero essere l’acubina, la silimarina e l’acido tioctico.

Solo un metodo (semplice) ci permette di riconoscerla: schiacciare un pezzetto del fungo in carta da giornale e versare una goccia di acido muriatico sulla macchia lasciata sul giornale dal fungo (contornare con una penna la macchia del fungo prima che evapori). Se si forma un alone di colore blu dopo un massimo di dieci minuti, allora quel pezzetto di fungo apparteneva ad una amanita falloide.

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