Coop, Esselunga e Conad sono marchi dei quali ci fidiamo, ma secondo un’indagine di Esseri Animali i loro polli per il 90% sono “malati”: capiamo meglio.
Fidarci del supermercato nel quale facciamo spesa è alla base della scelta di un punto vendita piuttosto che un altro. Controlliamo prezzi, offerte e la qualità dei prodotti. Ma spesso capita che ci sono dettagli che non siamo in grado di distinguere o che nello specifico non abbiamo idea indichino una determinata “malattia” nell’animale che stiamo comprando.

A porre l’attenzione sulla questione un’indagine portata avanti da Esseri Animali, che mostra una realtà che per molti potrebbe non essere chiara come il sole continuando a comprare un alimento che nasconde qualcosa in più.
Coop, Esselunga e Conad: il loro pollo ha qualcosa che non va
Quando entriamo al supermercato e ci dirigiamo al reparto carne siamo attratti dalle confezioni lucide, le loro etichette colorate e la promessa di freschezza che ci attira più di ogni altra cosa. Stiamo facendo spesa per noi e la nostra famiglia, la sicurezza è il primo fattore al quale diamo importanza.
Ma dietro l’apparenza si nasconde purtroppo un segnale di una realtà diversa che comporta allevamenti intensivi dove gli animali sono spinti oltre i loro limiti naturali. Si tratta di un fenomeno chiamato white striping, che si riferisce nello specifico alle strisce bianche che sono visibili sul petto di pollo. Queste strisce sono un sintomo chiaro di una patologia diffusa tra gli esemplari a rapido accrescimento.

La recente inchiesta condotta dall’associazione Essere Animali, porta alla luce dei dati che fanno tremare il settore alimentare. Oltre il 90% dei petti di polo a marchio Coop, Esselunga e Conad presenta i segni di questa alterazione. Un dato che pone dei quesiti sull’effettiva qualità dei prodotti, sul benessere degli animali ma soprattutto sulla trasparenza verso i consumatori.
Le analisi effettuate su oltre seicento confezioni acquistate in dieci città italiane, hanno mostrato che i petti di pollo con white striping sono ormai la norma e non più l’eccezione. In alcuni casi, come quello di Esselunga, i campioni colpiti raggiungono quasi il 97%. Un numero che racconta la realtà di una filiera produttiva esasperata dalla velocità e dall’efficienza, dove la crescita degli animali è spinta da selezioni genetiche che compromettono la loro salute.
Ma quando si verifica il white striping?
Chiariamo subito che il white striping non è un semplice difetto estetico. Quelle strisce biancastre che attraversano il petto di pollo sono la conseguenza di una degenerazione delle fibre muscolari, sostituite da tessuti grassi e fibrosi. Questo processo altera la composizione della carne che diventa più grassa, meno proteica e di qualità inferiore. Alcuni studi hanno rilevato un aumento del contenuto lipidico fino al 224% e una riduzione delle proteine fino al 9%, modificando in modo significativo il valore nutrizionale del prodotto.
La causa principale è la crescita accelerata dei polli negli allevamenti intensivi. Questi animali sono selezionati geneticamente per raggiungere in poche settimane un peso elevato, un ritmo innaturale che il loro corpo non riesce a sostenere. Il risultato è una carne dall’aspetto irregolare ma soprattutto animali sottoposti a sofferenze fisiche e stress continui.
Strisce bianche sul petto di pollo, sono pericolose per l’uomo?
Il white striping non rappresenta un pericolo per la sicurezza alimentare, è assolutamente sicuro per l’uomo. Bisogna però ricordare come detto in precedenza che la composizione della carne che diventa più grassa, meno proteica e di qualità inferiore. Ma soprattutto indica la situazione degli animali che non è delle migliori.
Di fronte a dati così evidenti, cresce la richiesta di una trasformazione della filiera. Le associazioni per i diritti degli animali e diversi gruppi di consumatori spingono affinché le grandi catene aderiscano allo European Chicken Commitment, un insieme di regole che promuove razze a crescita più lenta, standard minimi di benessere animale e maggiore trasparenza.
Alcune aziende italiane, come Carrefour, Cortilia, Eataly e il Gruppo Fileni, hanno già scelto di intraprendere questa strada. Le principali insegne della grande distribuzione, invece, continuano a rimandare decisioni concrete, nonostante l’evidenza scientifica e la pressione dell’opinione pubblica. Il cambiamento non avrebbe costi insostenibili: secondo le stime, il prezzo finale al consumatore aumenterebbe di appena 0,29 euro al chilo, un piccolo contributo per garantire una carne di qualità superiore e il rispetto degli animali allevati.





